L’Immagine Ambivalente di un’ Icona

Introduzione:

Nel 2006 gli undici paesi che hanno contribuito maggiormente al turismo di Venezia producevano il 61,36 per cento del prodotto interno lordo mondiale; all’estremo opposto, solo l’1,15 percento era generato dai primi undici paesi che hanno alimentato il flusso di immigrati nella città lagunare. È,questo, solo uno dei moltissimi dati che compongono il progetto Migropolis, vero e proprio atlante di Venezia come città globale, realizzato da Wolfgang Scheppe con gli studenti del corso di Politiche della rappresentazione alla Facoltà di Design e arti dell’ università Iuav di Venezia, sotto forma di un libro di1400 pagine e di una mostra allestita fino al 6 dicembre alla Fondazione Bevilacqua La Masa a Piazza San Marco.

Filosofo, teorico dell’immagine e scienziato sociale impegnato nella costruzione di archivi critici della contemporaneità, Scheppe (che abbiamo incontrato in occasione dell’apertura della mostra) è stato nel 2002 co-autore di Endcommercial, una ricerca sulle pratiche sociali di NewYork.

  • C’è un aspetto a prima vista contraddittorio di Migropolis: una mostra che analizza e critica l’immagine di Venezia viene presentata proprio in Piazza San Marco, alla Fondazione Bevilacqua La Masa. A chi si rivolge realmente questo progetto?

Sin dall’inizio abbiamo abbandonato la pretesa di rivolgerci a un interlocutore particolare. D’altronde basta dare un’occhiata alla voce «Venezia» e ai suoi link su Wikipedia per rendersi conto che la città è uno sfondo, una retroproiezione a cui si può sovrapporre qualsiasi cosa. Ci sono 21 milioni di turisti l’anno, c’è il pubblico dell’arte e della Biennale, ci sono 60.000 abitanti – non è possibile prevedere che effetto avrà la mostra. Sarebbe un buon risultato se gli ultimi abitanti di Venezia iniziassero a riflettere su questa sovrapposizione di immagini che ha luogo nella loro città. L’idea di fondo di Migropolis è quella di una cancellazione per 32duplicazione: Venezia scompare per la sua disponibilità a funzionare come immagine di sfondo per proiezioni che non hanno nulla a che fare con la sua realtà fisica. Questa città ha una capacità particolare di generare un’atmosfera che i visitatori portano già nel loro bagaglio arrivandovi: camminando per Venezia cercano di ritrovare questa atmosfera, ma restano del tutto all’oscuro della realtà empirica che hanno davanti. Ma anche i flussi dell’immigrazione si definiscono in base all’iconografia della città: se chiedi a un immigrato che cosa conosceva dell’Europa prima di lasciare il suo paese, ti parlerà di immagini mediatizzate, fotografiche o televisive. Venezia è diventata una copia di se stessa e l’originale viene distrutto da un bisogno, o forse da una precisa intenzione, di assecondare aspettative che si sono definite nel Settecento e che si sono rafforzate sempre più nel corso dei secoli successivi. Questo fenomeno è parte di una situazione generalizzata che Migropolis voleva indagare: Venezia è un territorio circoscritto nel quale le conseguenze oggettive della globalizzazione sono particolarmente visibili e catalogabili.

  • Migropolis è il prodotto di un corso che hai tenuto alla Facoltà di Design e arti dell’Università Iuav di Venezia. Che rapporto hai avuto con gli studenti?

Normalmente i progetti di ricerca si concentrano su un tema definito, ma in effetti Migropolis è nato con l’obiettivo di riconciliare la riflessione teorica con l’indagine pratica. In sostanza si tratta di un progetto collettivo. Attraverso un laboratorio intitolato Catachresis, abbiamo analizzato le proprietà dell’immagine fotografica intesa come atto rappresentativo, rapportabile all’atto linguistico teorizzato da John Langshaw Austin. Volevo che gli studenti cogliessero la differenza tra una fotografia istantanea, percepita come certezza sensoriale senza mediazioni, e una prodotta dall’intenzionalità di un autore che esclude, taglia, gerarchizza, restituisce alcuni aspetti con precisione e altri fuori fuoco, che quindi si configura come una versione della realtà. Non si può creare un’immagine di qualcosa senza sapere che cosa è quella cosa: creare un’immagine significa identificare un soggetto e questo atto di identificazione è un atto intellettivo, non solo il prodotto di una percezione sensoriale. Questo laboratorio ci ha permesso di definire una vera e propria teoria dell’immagine, che ha influito molto nella politica di utilizzo e produzione di immagini di Migropolis. Fin da subito ci siamo domandati se i media e i metodi della società dello spettacolo potessero creare una immagine cognitiva, un’immagine di conoscenza, o se al contrario un’immagine è solo la validazione di ideologie indipendenti da ogni critica intellettuale. L’immagine fotografica è di necessità una tecnica per creare false prove, uno strumento di persuasione? Come ha commentato Lewis Baltz, Migropolis cerca di fare i conti con il dilemma di Guy Debord: lo spettacolo può essere criticato solamente con mezzi spettacolari.

  • Nella mostra come nel libro, parole e immagini sono presentate in un rapporto dialettico. Come si colloca Migropolis in questa lunga storia che dal photo-text arriva fino alle icone della fotografia contemporanea?

I media, negli ultimi trent’anni, hanno progressivamente marginalizzato l’uso della parola: sempre di più le riviste contemporanee sono invase da immagini, mentre ai testi sono riservati piccoli riquadri molto sintetici. Questa duplicità è evidente anche in Migropolis. Tutte le fotografie e i diagrammi di questo progetto sono stati realizzati chiedendosi costantemente se il sistema di notazione che andavamo elaborando rendesse le cose più chiare rispetto al linguaggio. Il simbolo della linea con il filo spinato che attraversa tutte le pagine del libro rappresenta la linea di separazione che demarca tutte le città globalizzate e il globo intero, ma è anche la separazione tra il livello metaforico dell’immagine e la riflessione logica sulle sue implicazioni. Si tratta di un paradigma propriamente veneziano, derivato dalla famosa edizione dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto stampata a Venezia, nella quale “argomenti” e “allegorie”, testi e immagini, si trovavano a confronto sulla pagina. Così in Migropolis il testo incorpora la riflessione metodologica, mentre le fotografie visualizzano l’aspetto sperimentale. Ogni fotografia non è solo un’immagine, ma anche la messa in questione del risultato cognitivo generato da quell’immagine.

  • Qual è il rapporto tra la mostra, il libro e l’enorme archivio di dati e immagini raccolti per questo progetto?

L’idea iniziale della mostra prevedeva una trasposizione diretta del libro, stanza per stanza, capitolo dopo capitolo. Nella versione attuale, curata da Veronica Bellei, Katerina Dolejsova e Nera Kelava, si è cercato invece di decostruire il libro, restituendo al pubblico l’atmosfera generale della ricerca. La mostra è basata su un’idea di leggibilità aperta: concretamente ci siamo sforzati di rendere chiaramente leggibili tutti i sistemi di segni che abbiamo utilizzato, ma il risultato finale dipende dall’investimento personale di ciascuno spettatore. Nella sua forma attuale, Migropolis è il prodotto di una di tecnologia informatica che non solo ha consentito di avere un back-up automatico dell’intero archivio ogni 15 minuti, ma ha anche permesso a ognuno di noi di lavorare simultaneamente sui documenti pur trovandoci in parti diverse del mondo. Questo significa che il sistema, la tecnologia, impone una propria estetica: il libro che ne è risultato si presenta come un ipertesto complesso, generato da logiche che non sarebbero state possibili con metodi di lavoro più tradizionali. I miei progetti sono sempre trasversali: né l’editore né i librai sanno mai esattamente come collocare il prodotto finale. Tipicamente il libro finisce nella sezione “arte”, anche se naturalmente si tratta di anti-arte.

  • Una fotografia di “grado zero”?

Anni fa, dopo il progetto Endcommercial, ho pensato che nessuno potesse più fare belle fotografie, che fosse diventato addirittura imbarazzante fare fotografie d’arte. Naturalmente mi sbagliavo, il progetto non ha avuto un impatto così forte, eppure credo che mostri bene l’importanza di una fotografia meno interessata alla rappresentazione e più a ciò che viene rappresentato. Credo che anche Migropolis, oltre al tema di Venezia e alla globalizzazione, offra spunti di riflessione per le scienze sociali e nel campo dell’arte. Mi piacerebbe vedere un terzo volume del progetto che rifletta sui metodi di indagine e di rappresentazione che sono stati impiegati. Ma in realtà per un’indagine visiva di questo tipo non esiste l’ultima parola o l’ultima immagine. La globalizzazione è un rizoma senza fine, che ci conduce ovunque e non permette di fermarsi. Nel corso di questo progetto su Venezia ci siamo occupati anche di centri come Dakar, nel Senegal e Dhaka, nel Bangladesh: due luoghi che negli ultimi decenni hanno conosciuto ritmi incredibili di crescita. La globalizzazione connette qualsiasi cosa, dopo un po’ ci si trova persi una struttura rizomatica interminabile.

  • Non a caso il libro si chiude con una citazione da Debord: «Ad ogni modo, si attraversa un’epoca come si passa la punta della Dogana, vale a dire piuttosto rapidamente. All’inizio, mentre avanza, non la si guarda. E poi la si scopre quando si arriva alla sua altezza […]. Ma ormai stiamo già doppiando il capo, ce lo lasciamo alle spalle e ci spingiamo in acque sconosciute.»

Voglio aggiungere una postilla: oggi la Punta della Dogana che Debord descrive in modo così emblematico è proprietà di un uomo d’affari francese che nel pieno della globalizzazione utilizza questo luogo di Venezia per esporre se stesso e nient’altro. L’arte è diventata il mezzo cui con il capitale ricostruisce la propria soggettività.