Tre anni di lavoro intorno a «Migropolis» Allestita fino al 6 dicembre alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, la mostra «Migropolis» si ricollega al progetto che porta lo stesso nome, realizzato da Wolfgang Scheppe con i suoi studenti dello Iuav a partire dall’inverno 2006. Risale infatti a tre anni fa la prima fase del lavoro, nel corso della quale sono stati stabiliti i fondamenti teorici del progetto. La seconda fase del progetto, decollata nel 2008, è consistita nell’affinamento di una struttura per organizzare i risultati in un sintagma di visualizzazione di dati e immagini. La mostra è accompagnata da un libro pubblicato da Hatje Cantz, con prefazione di Angela Vettese e saggi di Giorgio Agamben, Valeria Birgio, Marco de Michelis, oltre che dello stesso Wolfgang Scheppe.

Migropolis è un voluminoso saggio in forma di mostra, che chiarisce attraverso migliaia di fotografie e moltissimi grafici come e perché Venezia si inserisce nel processo della globalizzazione economica del pianeta. Attraverso uno studio scrupoloso delle «tracce» dei migranti, Wolfgang Scheppe insieme agli allievi del Corso di laurea in comunicazioni visive e multimediali dello Iuav ha dimostrato quanto sia contraddittorio lo stereotipo di Venezia luogo del «desiderio turistico» rispetto al ruolo che la città svolge come «magnete centrale» della migrazione, tanto da configurarsi come un prototipo della globalizzazione dei centri urbani. In questo senso l’indagine è un eccellente lavoro politico, davvero raro presso le nostre istituzioni accademiche, sia per il rigoroso metodo analitico adottato, sia per la qualità dei documenti grafici e visivi elaborati. In particolare la fotografia, ricondotta alla sua funzione di verifica della realtà, non è qui impiegata, come spesso accade, a mo’ di espediente illustrativo per saturare pagine. In Migropolis le foto - essenziali nel loro piccolo formato - si presentano quale strumento privilegiato della strategia di Scheppe, che insieme alle tavole sinottiche circoscrive gli elementi dell’universo «migropolis». Nel loro complesso le fotografie rendono visualmente le forme dell’esclusione nel microcosmo lagunare, illustrando luoghi e figure nei racconti di un campione di immigranti, così come le tavole sinottiche mostrano i movimenti di persone, merci e servizi nello spazio fisico di Venezia, nella loro dimensione dinamica e deregolata rispetto alla terraferma e al resto del mondo. Viene così reso concretamente il significato del termine «globalizzazione», spesso simile a una vuota astrazione. In questo Scheppe si è ispirato alla teoria situazionista della dérive di Guy Debord, fondata sulla registrazione dei rapidi passaggi di ognuno attraverso i differenti ambienti del tessuto sociale della città: come se fossimo trasportati dalla corrente «arrendendoci al momento d’inerzia dei quartieri urbani». Debord sperava così di oggettivare le relazioni sociali in una cartografia che restituisse la dimensione «psicogeografica» della città - una concezione diversa rispetto al ritratto del flâneur in Baudelaire, Simmel o Benjamin. A differenza delle tradizionali cartografie che forniscono la sola geometria spaziale dei luoghi, le registrazioni di Scheppe e dei suoi allievi hanno prodotto una mappa della città lagunare che per la prima volta mostra, con nitida forza documentale, l’«urbanità vivente». Superando i codici autoreferenziali preesistenti, questa prospettiva implica il coinvolgimento degli stessi autori, come aveva scritto in Rappresentare la città dei migranti (Jaca Book, 2007) Giovanni Attili: «Non posso rappresentare una città senza che questa retroagisca su di me, influenzando il mio modo di raffigurarla». Anche la mappatura di Migropolis si fonda sull’assunto epistemologico che non c’è neutralità nell’atto di rappresentare qualcosa, ma tutto si trasfigura e si interpreta secondo le intenzioni di chi osserva. Cogliere le differenze tra rappresentazione e rappresentato significa nel caso di Venezia districarsi, oltre che nella sua topografia di città globale, tra le sue infinite copie: la moltitudine di versioni manipolate che ne ha prodotto la «società dello spettacolo» come nei Venice Parks di Las Vegas che la espongono alla «falsa sembianza dell’oggettività iconica». La città dei migranti coesiste con quella dello spettacolo e gli spazi che occupa sono quelli dell’eterotopia,dei contro-luoghi - nel significato dato da Foucault - diffusi nella città lagunare e sulla terraferma: i piccoli parchi urbani, gli anfratti della stazione, gli ambienti delle chiese evangeliche o ortodosse. Gli immigrati rappresentano quasi il cinque per cento degli abitanti di Venezia ma esistono pochissimi dati sulla loro distribuzione residenziale. Sono però le «persone senza un paese» - come ha scritto nel catalogo Giorgio Agamben - la sola figura immaginabile di popolo contemporaneo ed è attraverso lo studio della migrazione nei nostri paesi che si potranno immaginare forme nuove della politica. Lo studio meticoloso di Migropolis lo dimostra seguendo la tesi di Hannah Arendt secondo la quale occorre guardare ai «rifugiati» come all’«avanguardia dei loro popoli». Naturalmente mi sbagliavo, il prog etto non ha avuto un impatto così forte, eppure credo che mostri bene l’importanza di una fotografia meno interessata alla rappresentazione e più a ciò che viene rappresentato. Credo che anche Migropolis, oltre al tema di Venezia e alla globalizzazione, offra spunti di riflessione per le scienze sociali e nel campo dell’arte. Mi piacerebbe vedere un nuovo volume del progetto che rifletta sui metodi di indagine e di rappresentazione impiegati. Il fatto è che per un’indagine visiva di questo tipo non esiste l’ultima parola o l’ultima immagine. La globalizzazione è un rizoma senza fine, che conduce ovunque e non permette di fermarsi. Nel corso di questo progetto ci siamo occupati di centri come Dakar, nel Senegal e Dhaka, nel Bangladesh, luoghi che negli ultimi decenni hanno conosciuto ritmi incredibili di crescita. La globalizzazione connette qualsiasi cosa, dopo un po’ ci si trova persi una struttura rizomatica interminabile. Non a caso il libro si chiude con una citazione da Debord: «Ad ogni modo, si attraversa un’epoca come si passa la punta della Dogana, vale a dire piuttosto rapidamente. All’inizio, mentre avanza, non la si guarda. E poi la si scopre quando si arriva alla sua altezza… Ma ormai stiamo già doppiando il capo, ce lo lasciamo alle spalle e ci spingiamo in acque sconosciute». Voglio aggiungere ancora una postilla: oggi la Punta della Dogana che Debord descrive in modo così emblematico è di fatto proprietà di un uomo d’affari francese che nel pieno della globalizzazione utilizza questo luogo di Venezia per esporre se stesso e nient’altro. L’arte è diventata il mezzo con cui il capitale ricostruisce la propria soggettività.