Finita l’estate londinese con i suoi mille musei, sono approdata per i prossimi due anni (almeno) nella città-museo italiana per eccellenza: Venezia. Dalle pinacoteche di Londra a un’intera città che è un museo a cielo aperto, vi salto tutti i luoghi comuni possibili e immaginabili (che poi i lettori si innervosiscono e mi scrivono commenti orrendi), per arrivare subito a “Migropolis”, oggetto delle mie ultime attenzioni e pensieri.

Venezia e le sue diverse chiavi di lettura possibili è il primo pensiero che salta subito in mente aggirandosi per le stanze di “Migropolis”. Si tratta di un progetto ideato nel 2006 da Wolfgang Scheppe che ha coinvolto i suoi studenti del Corso di Laurea specialistica in Comunicazioni visive e multimediali dello IUAV. Successivamente il progetto si è staccato dalla piattaforma accademica ampliandosi sempre di più, fino ad arrivare alla sua forma finale, quella che è esposta nel corso di questi due mesi alla Fondazione Bevilacqua La Masa (per i non addetti, si tratta di un galleria d’arte che si trova a San Marco, che, fin dal 1898, ha sempre cercato di caratterizzarsi dando spazio ai giovani con sempre nuovi concorsi e iniziative dedicati esclusivamente a loro).

La prima differenza tra Londra e Venezia è di carattere spaziale: dagli enormi ambienti del British il salto alle anguste sale della Fondazione non è poca cosa. Per quanto le stanze siano strette, tutta la “Venezia-dell-arte” riesce a stiparsi perfettamente (al netto di un prevedibile “effetto sardina”) per l’inaugurazione di “Migropolis”: studenti, professori, nullatenenti, nullafacenti, perdigiorno, oziosi fino ad arrivare agli immancabili, curiosamente viziosi (personaggi ostentatamente stravaganti che sembrano uscire di casa solo per questo genere di eventi mondani). Una pastiglietta per placare i primi sintomi di claustrofobia e concentro l’attenzione sulla mostra che è in buona sostanza una serie di fotografie di persone e di rappresentazioni grafiche della città. Gli intervalli spaziali sono pieni di persone fisiche, le pareti sono piene di persone bidimensionali. Un filo di capogiro. L’idea principale di Scheppe è stata quella di prendere Venezia come esempio di città globalizzata raccontando tutti i suoi aspetti più estremi, dalla miseria in cui vivono gli immigrati, alla fuga dei suoi abitanti fino ad arrivare al turismo insostenibile che ogni giorno invade, come un’ondata di barbari, i suoi pochi chilometri quadrati di calli, campi e campielli (mi rendo conto che sto cadendo nell’ovvietà più crassa, questa però è la chiave curatoriale di tutta la faccenda).

Le persone intorno a me mi tolgono il respiro, nel contempo sono completamente destabilizzata dalla quantità di informazioni che la mostra fornisce sotto forma di fotografie di tutte le dimensioni e formati, curiosi grafici che si riferiscono alle statistiche più inaspettate e rappresentazioni delle più diverse analisi psico-geografiche tutte riferite alla sola Serenissima. Nel contempo mi viene un dubbio: se Venezia produce tutto questo contenuto, quanto materiale si potrebbe produrre per descrivere città come Milano, Roma o New York? Ma forse no. Forse, questo è un carattere del mondo contemporaneo: che si tratti di descrivere Shanghai o Prato, la quantità di informazioni in gioco è sempre inverosimile.

Devo confessare che immaginavo una mostra veloce, una visita che in dieci minuti vedi tutto e capisci tutto quello che c’è da capire. Direi che mi ero sbagliata dato che ogni angolo della mostra invita a spendere ore di contemplazione e attenzione di fronte ad un dato grafico o ad una certa statistica. Il tutto diventa realmente interessante quando è il momento di passare al secondo piano dell’esposizione e, proprio ai piedi delle scale, mi imbatto in una parete completamente coperta da piccoli cartoncini grigi, disposti in file ordinate, che mettono a confronto le diverse caratteristiche di Paesi del nord e del sud del mondo con grafici rappresentanti i vari “PIL”, “speranza di vita”, “densità della popolazione”, “mortalità infantile”, eccetera. Nella sua semplicità e banalità, credo che ciò che mi mantenga incollata a quella parete a controllare in maniera ossessiva ogni singolo cartoncino, sia la facilità di lettura del tutto. Sappiamo tutti le enormi differenze in termini di qualità della vita che ci possono essere tra la Svizzera e la Nigeria (solo un pazzo potrebbe preferire di nascere in Svizzera), ma vedere un paragone così chiaro non può che impressionare chiunque.Solo l’altro giorno è stato stabilito (da qualche Unesco o Onu o centro di ricerca pazzescamente importante) che il luogo migliore del mondo dove vivere (per la qualità della vita) è la Norvegia. Ovviamente non ho nulla contro la Norvegia e i norvegesi, dopodichè, le informazioni e le statistiche e i cartoncini, i dati, i curatori tedeschi e i vari dottori Strangelove hanno una comprensione del mondo a volte un poco limitata e incompleta…

Comunque, l’infilata dei cartoncini era di grande effetto. Una seconda pastiglietta per la claustrofobia (di informazioni in arrivo al mio cervello) e sono riuscita a stare un quarto d’ora abbondante a bocca aperta. Next, passo al piano superiore, dove si trova un’altra stanza che mi impressiona non poco.

A un primo sguardo sono banali fotografie 10×15, visibilmente amatoriali e di discutibile qualità. Invece appena l’occhio si abitua e si inizia a comprendere quale sia il codice segreto per leggere il tutto, non posso che rimanere impressionata nuovamente.

Le quattro pareti sono, in realtà, ordinatamente scandite in colonne di foto, ogni colonna è dedicata ad una persona, il cui ritratto è la prima foto in alto, seguito da immagini catturate durante l’arco della giornata, catalogate minuziosamente, che ritraggono ogni dettaglio della vita di queste persone, tutti stranieri che vivono a Venezia per diverse ragioni, dagli studenti in Erasmus agli immigrati clandestini che vendono merce contraffatta ai turisti. La sensazione è apparentemente spiacevole, ma anche di grande soddisfazione: è come se si stesse spiando nella misera vita di queste persone (che poi siamo noi), venendo a conoscenza di ogni loro segreto, anche i più intimi e privati.

Giunta alla conclusione della visita, credo sia durata non meno di due ore, spossata, sento di aver imparato qualcosa. Sensazione strana, perché in genere uno va alle mostre che possono essere belle o brutte, ma in genere nessuno fa mai alcuno sforzo per farti capire o imparare alcunché. Quando poi arrivi a una mostra dove c’è un’intelligenza evidente, sei impreparata e ogni tanto devi sederti su una sedia per evitare il capogiro per l’overdose di informazioni. In un mondo dove le mostre sono intese come il salvaschermo dei nostri computer, una mostra che in svariati passaggi mette in crisi l’hard-disk della mia testa è merce rara, dunque prezioso. Si tratta di una quelle mostre che ti fanno scordare gli impegni che vengono dopo e che ti avvolgono completamente.

La mostra è fortemente critica, ma allo stesso tempo incredibilmente pacata nella scelta del linguaggio narrativo. Sicuramente da non perdere.