[…] A questa smaterializzazione e astrazione di Venezia, che ha prodotto testi di straordinaria bellezza letteraria, non sono tuttavia mancate alternative anche dopo la reinvenzione romantica della città (per cui oltre a Tanner, si vedano Pemble 1995, Doody 2006). Ne è uno dei migliori esempi l’ottocentesca Venetian Life del console statunitense William Dean Howells, il cui solo titolo è sufficiente a sottolineare un interesse misto per il contenitore (le bellezze architettoniche e artistiche della città) non disgiunto da quello per il contenuto (gli abitanti, la loro esistenza quotidiana, le loro tradizioni) e distante anni luce dal quasi contemporaneo The Stones of Venice di Ruskin. In tempi più recenti si potrebbe segnalare in questo senso la curiosa convergenza di testi diversissimi come i gialli di successo della Venetian-American Donna Leon (che non a caso ne rifiuta la traduzione italiana per rimanere un’emerita sconosciuta tra calli e campielli e attingere inosservata alle mille storie che si incrociano in questi luoghi) o il meno noto volume di taglio sociologico Vivere a Venezia (2005) con testi di Thomas Krämer-Badoni e foto di Katja Heddinga. Tuttavia il tentativo più ambizioso in questa direzione è fornito dalla recente operazione del filosofo Wolfgang Scheppe, che insieme a un gruppo di studenti del corso di politica della rappresentazione dell’Università IUAV di Venezia ha dato vita a una mostra (www.migropolis.com) e a un libro in due volumi intitolati Migropolis. Atlas of a Global Situation (2010). Il progetto, che ha trovato per alcuni mesi del 2009 la sua sede espositiva alla Fondazione Bevilacqua La Masa a Piazza San Marco, ha costituito una vera e propria sfida all’immagine stereotipata della città, offrendo proprio nell’epicentro di uno degli epicentri del turismo mondiale una Venezia alternativa e non oleografica e incuneandosi con non poche difficoltà, anche grazie a un linguaggio sofisticato e deliberatamente non immediato, nel fulcro dei circuiti di visita. Migropolis confuta l’appunto di Saskia Sassen che, nella sua influente teorizzazione della global city, classifica Venezia come città internazionale ma non globale. Al contrario, Scheppe ha voluto rappresentare la città come snodo esemplare dei processi migratori che tessono reti sempre più complesse sul nostro pianeta e insieme come luogo emblematico delle dinamiche della società dello spettacolo di Debord. Siamo decisamente nel campo di Venezia come città paradigma: attraverso diagrammi, statistiche, reticoli di dati, mappe, ma anche casi di studio e interviste, e soprattutto una miriade di immagini dialettiche, Migropolis vuole mettere in evidenza i flussi migratori interconnessi a quelli turistici che fanno convergere e attraversare la città da un numero crescente di lavoratori stranieri. Attraverso una documentazione fotografica che sceglie metodicamente e serialmente tutto ciò che l’obbiettivo del turista scarta, questa raccolta di documenti costringe a confrontarsi con le tracce più o meno visibili di tutti quei lavoratori, legali o clandestini, su cui si sorregge un’economia sempre più appiattita sul turismo. Posto sotto l’egida delle riflessioni sui rifugiati di Hannah Arendt e Giorgio Agamben, il viaggio di Scheppe e i suoi studenti punta sul migrante, il clandestino e il rifugiato come figure emblematiche del presente e chiede di guardare in faccia la realtà per cui dietro il godimento di milioni di turisti c’è il lavoro, a volte lo sfruttamento e lo spaesamento di migliaia di viaggiatori per necessità (Scheppe 2010, 104-119).

L’ altra faccia della medaglia di Migropolis è che la città esemplare che emerge rischia di diventare, in un curioso rovesciamento del ragionamento del Marco Polo di Calvino, una città globale qualsiasi, facendone dimenticare alcune fondamentali caratteristiche storiche. L’immagine di copertina è molto evocativa, e racchiude in questo senso le contraddizioni del progetto: una gondola attraversa il Canal Grande portando come passeggeri cinque lavoratori africani muniti di vistosi sacchi di plastica azzurri. L’occhio consumato vi riconosce altrettanti venditori ambulanti che trasportano le pregiate imitazioni di borse di alta moda, vendute illegalmente su improvvisati banchetti sparsi per la città ma concentrati lungo le traiettorie del turismo di massa e nei pressi degli stessi negozi che vendono gli originali a prezzi molto più alti (e che per ironia non producono profitti, essendo che molte delle grandi firme mantengono una vetrina a Venezia più per prestigio che per reddito). Grazie anche alla peculiare qualità della luce tenue e grigiastra, quanto di più programmaticamente lontano dai fulgidi cieli di Canaletto e Tiepolo transitati nelle cartoline patinate, è ovvio che l’immagine punti a deromanticizzare Venezia e a richiamare l’attenzione sul suo essere come le altre città globalizzate. Ma cosa rappresentano qui i gondolieri? Riusciamo a vedere anche loro come lavoratori? Riusciamo a vedere anche loro come eredi di un’arte millenaria? Il discorso è insidioso, perché si rischia di echeggiare alcune posizioni reazionarie (quando non palesemente razziste) che di fronte alle sfide della globalizzazione vagheggiano una Venezia autoctona, autarchica e autoreferenziale, o più in generale una fantomatica Padania di quella Lega Nord che nella città lagunare pure non ha mai avuto molto successo (in questo tutto l’antico snobismo veneziano verso questi politici dell’entroterra rurale ha giocato non poco). Nel suo condivisible intento di creare una violenta dialettica visiva tra lo straniero come turista vs. lo straniero come migrante, colui che viaggia per diletto e chi viaggia per costrizione, Scheppe dimentica gli altri lavoratori, che sono figli e nipoti e pronipoti di migranti. Il paradosso è quindi che per non fare assomigliare Venezia a Venezia, ovverosia la città globale alla città da cartolina, si finisce per far assomigliare Venezia a ogni altra città contemporanea d’Occidente. D’altro canto, la qualità di Migropolis (sul cui linguaggio espositivo sofisticato e intellettuale andrebbe aperto un capitolo a parte), va anche ricercata in un altro aspetto cruciale. Come ha osservato acutamente un recensore della mostra: “I dati che corredano la ricerca, spesso preoccupanti, sono l’anamnesi e la diagnosi. Ma il metodo con cui Wolfgang Scheppe ha condotto il lavoro rappresenta anche una possibile terapia, forse la sola possibile” (Barbiani 2010).

Scrive Angela Vettese, Presidente Fondazione Bevilacqua La Masa, nella premessa al catalogo: “Venezia potrebbe usare il suo immenso potenziale simbolico, internazionale e globale per vocazione, diventando o piuttosto ritornando ad essere un incubatore di attività del conoscere. La città ha nello sviluppo delle attività culturali l’unico antidoto al soffocamento da turismo. È inutile lagnarsi che le famiglie residenti diminuiscano, che il sito cambi natura, che il modo di stendere i panni tra i palazzi delle calli di Castello vada perdendosi irrimediabilmente. Si possono guadagnare altre cose. Se solo si prova a credere che la trasformazione di un luogo, soprattutto di questo luogo in questo tempo, non significa affatto la sua morte ma piuttosto un’occasione di rinascita.” (2010, 13)

Vettese in questo senso echeggia proposte che troviamo espresse e declinate da molti anni (si vedano ad esempio Longhi [1999] e gli interventi di Carlo Carraro e Francesco Giavazzi in Un futuro per Venezia [2006]), ma che ora più che mai impongono scelte veloci. […]

10. Come accennato in precedenza, un punto di riferimento importante del lavoro di Scheppe è l’opera di Guy Debord, sia perché il metodo psicogeografico sperimentato dai situazionisti a partire dagli anni ’50 è un modello forte per Migropolis, sia perché la Venezia globale sembra una perfetta incarnazione della ‘società dello spettacolo’ teorizzata dal geniale pensatore francese (Scheppe 2010, 104). “Non mi direte che stimo troppo il tempo presente; e se però non ne dispero, è solo a causa della sua situazione disperata, che mi riempie di speranza.” Sono parole del giovane Karl Marx citate da Debord nel film dal titolo palindromo In girum imus nocte et consumimur igni (1978, “andiamo in giro di notte e siamo consumati dal fuoco”). Parole di disincanto ma non di disperazione su un presente omogeneo, appiattito, quasi una dopo catastrofe. Debord usa volontariamente toni apocalittici, senza scampo, salvo prospettare un improbabile sovvertimento dell’esistente. Sullo sfondo di queste parole scorrono immagini di Venezia. Su Venezia i situazionisti si erano orientati fin dal 1957, in cui la città era stata scelta dall’inglese Ralph Rumney come zona di 71sperimentazione per la “prima esauriente operazione ‘psicogeografica’ applicata all’urbanistica’” (Debord 1957). Rumney fu poi espulso dall’Internazionale Situazionista, forse per non aver portato a termine il progetto o per tensioni personali con i suoi vertici. Ma quel che ci interessa è che nella sua opera incompiuta spunta una sua nota di cui faremo tesoro: “The Ghetto has the most beautiful ‘ambiance’ in Venice and would reward exhaustive study by one more competent than the author” (Rumney 2002). C’è infatti un luogo particolare a Venezia, che rappresenta insieme i problemi, le potenzialità e le proposte che abbiamo qui discusso. Il Ghetto di Venezia, famoso in tutto il mondo per il dubbio onore di aver reso il proprio nome sinonimo di tutte le aree di segregazione ebraica e successivamente di ogni enclave etnica urbana, rispecchia le contraddizioni della città globale. Negli ultimi anni questo quartiere periferico e malandato è diventato una popolare meta turistica grazie al proprio significato storico e alle sue sinagoghe rinascimentali. Allo stesso tempo la sua secolare società ebraica sta subendo lo stesso fato del resto della popolazione, venendo erosa e andando incontro a una probabile estinzione, salvo essere rimpiazzata da una piccola ma attiva setta ultraortodossa storicamente estranea alla vicenda locale (Bassi 2002). Il Ghetto rappresenta quindi la vicenda esemplare di un’area in cui il successo crescente del fenomeno turistico è parallelo e concorre alla lenta ma apparentemente inesorabile estinzione di una parte importante del tessuto veneziano, un rapido declino demografico che probabilmente porterà a una situazione simile a quella di luoghi come Cracovia, dove un boom della cultura ebraica corrisponde alla scomparsa di una comunità viva. Significativamente, nel volume di Scheppe il Ghetto viene evocato solo come archetipo di molti ghetti contemporanei, come i degradati quartieri etnici di Padova dove si verificano oggi le condizioni più miserabili della vita dei nuovi immigrati extra-europei. Qui più che altrove risalta la contraddizione di quest’opera preziosa, in cui l’assenza di una dimensione storica provoca un curioso fenomeno di appiattimento. Lungi dal configurarsi come semplice luogo di esclusione, infatti, il Ghetto di Venezia è stato fin dal XVI secolo anche una zona di contatto, un’area dinamica nella quale e attorno alla quale l’identità ebraica venne costantemente negoziata in un processo di reciproca influenza con la società cristiana. Costretto dentro limiti angusti insulari, circondato dall’acqua, porto sicuro per rifugiati, multietnico e multilingue con ebrei giunti da Italia, Germania, Spagna, Portogallo e Impero Ottomano, il Ghetto si rivela essere una perfetta mise en abîme di Venezia tutta, città di stranieri la cui identità è sempre stata dinamica e negoziata attraverso diversi confini culturali, incarnandone le contraddizioni e potenzialità. Come ha osservato l’antropologo Franco La Cecla in un’analisi più generale che però si attaglia perfettamente al caso veneziano, “il ghetto è un malinteso per eccellenza, perché spesso sotto il termine negativo si cela qualcosa di molto utile per entrambi, quelli del dentro e quelli del fuori” (1997, 9, 44). Al turista di passaggio, ma anche allo studioso raffinato come Scheppe, non basta quindi un buon museo per indicare che al contrario dei ghetti odierni, in quello veneziano la necessità della separazione si fece anche virtù culturale, portando alla collaborazione tra studiosi ebrei e tipografi cristiani per le prime edizioni a stampa del Talmud, o a opere di divulgazione come la Historia de’ Riti ebraici dell’eclettico rabbino Leon Modena, o al salotto letterario di Sara Coppio Sullam. […]